di Alberto Rossi*

Anche a livello internazionale, con la pubblicazione di studi e analisi sempre più completi e approfonditi, si sta prendendo coscienza di come il CII (Carbon Intensity Indicator) voluto dall’IMO – entrato in vigore lo scorso 1° gennaio – rischi non solo di non raggiungere l’ambizioso traguardo di una riduzione dell’impronta carbonica del trasporto marittimo, ma anzi di essere in tal senso controproducente.

Come è noto, parliamo di un indice che misura la quantità di carbonio emessa da una nave in rapporto al lavoro di trasporto compiuto, definito come la quantità di merce trasportata per la distanza percorsa. La logica che sta dietro il CII è quella di favorire le navi che, a parità di emissioni, trasportano una maggiore quantità di carico utile o che a parità di carico utile producono meno emissioni di CO2.

Gli armatori sono quindi chiamati a documentare il loro CII annuale raggiunto e confrontarlo con il CII annuale richiesto per determinare la valutazione dell’intensità di carbonio operativa della loro nave. Il CII annuale richiesto diminuirà progressivamente nel tempo, rendendo la norma sempre più stringente. Le navi ricevono una valutazione di A, B, C, D o E, che indica un livello di prestazione maggiore superiore, minore superiore, moderato, minore inferiore o inferiore per una nave. Una nave in classe D per tre anni consecutivi, o classificata E, dovrà sviluppare un piano di azioni correttive che riportino la stessa nelle categorie superiori.

La formulazione della norma, la cui logica di principio è del tutto condivisibile, si scontra con l’incapacità della stessa di catturare adeguatamente la combinazione delle caratteristiche tecniche e delle modalità operative della nave, per cui una nave migliore di un’altra dal punto di vista delle emissioni di CO2, come caratteristiche tecniche, può risultare peggiore a causa di elementi operativi spesso fuori dal controllo dell’armatore. Qualche esempio? Ore o giorni in rada a causa di una congestione portuale o di uno sciopero, o ancora prolungate soste in banchine per esigenze di servizio.

Secondo un’analisi dell’American Bureau of Shipping (ABS), il 92% dell’attuale flotta di navi portacontainer, l’86% delle navi portarinfuse, il 74% delle navi cisterna, l’80% delle navi gasiere e il 59% delle navi metaniere necessiterebbero di modifiche e cambiamenti operativi per ottenere una classificazione di efficienza energetica A, B o C.

Numeri che fanno il paio con quelli contenuti in uno studio svolto lo scorso anno dal RINA per conto di Assarmatori, in cui si evidenziava come nel giro di tre anni dall’entrata in vigore della misura la flotta traghetti italiana si sarebbe trovata in scacco, con più del 73% delle navi non ottemperanti alla norma e quindi potenzialmente non più in grado di navigare.

Ecco perché occorre una urgente revisione della metrica di questo indice, proprio per evitare storture anche con riferimento all’obiettivo finale, ovvero la decarbonizzazione. In Italia, ad esempio, la flotta traghetti (e in questo segmento gli armatori del nostro Paese sono al vertice mondiale per capacità) realizza una vera sostenibilità ambientale grazie alle Autostrade del Mare, strumento che consente di togliere mezzi pesanti dalla strada, contribuendo in modo decisivo alla riduzione – fra le altre esternalità negative – dell’inquinamento.

Ancora, è da sottolineare che una delle poche azioni correttive efficaci che può essere messa in atto per far rientrare una nave dalla classe E verso le classi superiori è la riduzione di velocità. Detto che non sempre questa è possibile, pena l’impossibilità di mantenere il servizio (si pensi ai traghetti di linea), la riduzione di velocità comporta allo stesso tempo la riduzione della quantità di merce trasportata nell’unità di tempo. Questo significa che, su una certa linea di traffico che abbia necessità di una specifica quantità di trasporto, ci potrebbe essere una riduzione della velocità di una nave ma l’immissione di un’altra unità sulla stessa linea di traffico. Dal punto di vista ambientale questo è un controsenso, perché le emissioni che ne deriverebbero ben difficilmente sarebbero inferiori.

C’è altro da dire in tal senso. Secondo Panos Mitrou, responsabile del segmento Global Gas di Lloyd’s Register, più della metà delle navi alimentate a gas naturale liquefatto (GNL) non è in grado di rientrare in classe A, B o C. Questo porterà i noli alle stelle, con una ripercussione diretta sulla transizione energetica, visto che il GNL, pur non essendo la panacea di tutti i mali, è universalmente riconosciuto come fuel di transizione, in grado di abbattere significativamente le emissioni nocive.

Detto della necessità di rivedere al più presto la metrica del CII, una delle chiavi per superare queste problematiche è quella di utilizzare su larga scala combustibili alternativi.

Anche in questo caso, tuttavia, non mancano le problematiche – relative alla produzione e distribuzione – ma anche le opportunità, specie per l’Italia. Ne parleremo meglio in un successivo approfondimento.

 

*Segretario Generale di Assarmatori

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